Il titolo di questo post dice tutto. Io amo il lieto fine.
Ci sono tante cose che, nel variopinto mondo della narrativa, possono suscitare in me diverse reazioni violente – reazioni che variano dall’alzare gli occhi al soffitto, al sospirare rassegnata, al notare che mi sono appena cadute le braccia. – ma credo che una e una soltanto possa occupare il posto sul podio.
Quando sto leggendo un commento, una recensione, un rant, laqualunque, e ci trovo il fatidico “Non è male, ma non mi è piaciuto perché finiva bene.” o “Sarebbe stato meglio con un finale più triste” o “Il finale era troppo melenso; sarebbe stato meglio se Protagonista o Coprotagonista o ChiPerLui fosse morto.”
Ora, prego, immaginatemi mentre intreccio le dita, chino appena la schiena in avanti, poggio il mento sulle mani e sto a scrutarvi con uno sguardo fisso e un po’ spiritato.
Sì: il mio peggiore incubo nel mondo della narrativa sono le persone che odiano il lieto fine. Ma prima, lasciate un attimo che vi spieghi.
Dunque, se a voi non piace il lieto fine MA la riconoscete come una questione di gusti personali. a me sta benissimo. Non condivido, ma accetto. Se dite che voi avreste preferito un finale più cupo, a posto. A me piace il succo di frutta mela banana, a voi alla pera. Okay. Nessun problema.
Quello che mi fa prudere le mani è quando la questione “lieto fine” viene vista come un oggettivo difetto; come se bastasse dire “questa storia finisce bene” perché, nella mente di alcuni bizzarri individui, diventi automaticamente una storia da cestinare. Così, senza mano sapere in cosa consiste il lieto fine. Ora, davvero: perché.
Perciò, ecco, è di questo che vorrei parlare oggi.


Now, due premessine veloci veloci: ribadisco, non sono contro alle preferenze personali. Rispetto i gusti di ogni forma e misura.
Sono contro al voler presentare come difetto – oggettivo, senza sì e senza ma – qualcosa che non lo è, come se il lieto fine potesse essere messo sullo stesso piano di contenuti privi di originalità, personaggi piatti e una scrittura di scarsa qualità.
Poi, okay, io di mio preferisco il lieto fine. Ma in questo articolo cercherò di rimanere assolutamente non di parte, e spiegare quando un finale positivo è bene e quando è male.
O meglio, cercherò di strafare: spiegare cos’è un finale, tornando alle basi. Cominciamo.

(Parlerò sempre di scrittura/lettura perché sono i miei campi, m a si può intendere per la narrativa di tutti i tipi.)

Il perché di tanto odio

In principio, vorrei cercare di risalire alle cause dell’odio viscerale che gira per il cosiddetto “lieto fine”, e perché alcuni abbiano cominciato a vederlo come un difetto vero e proprio.
Credo si possa riassumere in due macrocategorie: quelli del “Il lieto fine non mi piace perché è banale, non è che nella realtà tutto finisce bene” e quelli del malsano Morto E’ Meglio. (Di quando in quando, le due cose possono fondersi.)

  • Banale, ma davvero…
    Qui ci sono un sacco di cose da spiegare, ma il bello è che di base la cosa è piuttosto semplice.
    Il lieto fine, da alcuni, può venir considerato banale solo in quanto finale positivo. E credo questo avvenga per una sorta di bug mentale che porta a ricollegare un “finisce bene” con “era facile”. Dunque l’equazione sarebbe Lieto fine = Intreccio Semplice; poi, un altro giudizio sommario (ma molto diffuso) è che Intreccio semplice = Noia. Non solo, un intreccio semplice viene visto come poco realistico, portatore di pressappochismo, etc…
    … ma ha davvero senso, questa equazione? No, non credo. Eppure è una cosa che capita anche nella vita di tutti i giorni. Mi sfugge il motivo per cui una cosa come, ad esempio, “ho un buon lavoro che mi piace e paga bene” diventi “allora sei incozzato e/o un cazzaro” o come a “ho faticato tantissimo su questa storia/disegno/modellino di aereo” qualcuno risponda “Ma è un hobby, non puoi averci faticato davvero“.
    Non è che funzioni proprio così x°. Non dico che gli incozzati e i cazzari non esistano, ma se uno ha un buon lavoro magari, boh, se lo è pure guadagnato; e poco importa se scrivere, tradurre, disegnare o costruire modellini siano solo un hobby: posso benissimo averci messo tutto il mio impegno, cura e attenzione, indi essermi ammazzata di fatica. Anche se non ci ho guadagnato nulla.
    Per cui, no, le cose “belle e piacevoli che siamo felici di fare” non sono necessariamente facili, cose “che potrebbero fare tutti in due minuti, se ci provassero”.
    Ed eccola qua: guadagnato è la parola magica. Anche le storie funzionano in termini di guadagno (o perdita, in caso).
    Ricordiamo un attimo cos’è una storia, vi va? Il fulcro primario è che c’è un tizio – il Protagonista, lì – la cui situazione iniziale subisce un grosso cambiamento. Al che, Protagonista reagisce al cambiamento, assecondandolo o opponendosi, partendo per raggiungere il Suo Grande Obiettivo. Questo SGO può essere raggiunto o meno, è variabile. Fine. La storia è il racconto delle difficoltà che ha incontrato Protagonista per guadagnarsi il suo lieto fine, o per arrendersi e capitolare in un triste finale all’ultima pagina. Possono esserci migliaia di varianti della formula, ma lo scheletro è sempre questo. E da nessuna parte si implica che sia facile, lineare, noioso.
    Per cui: se una storia è scritta bene dal suo autore, se il Protagonista ha vissuto bene questo suo viaggio e la vicenda giunge alla sua più naturale conclusione, il finale – positivo o negativo che sia – non potrà mai essere sbagliato.
    In questo caso, se il finale non piace è solo questione di gusti. Fatevene una ragione. Ma la storia non è “rovinata”, e questo non è un difetto. Che poi, gusti: spesso non credo si tratti neanche del vero e proprio gusto, ma di un assunto personale su cui non si è riflettuto granché. Se provassimo a chiedere a qualcuno di questi Mister E’TroppoBanale un “sì, ma perché è banale” non credo potrebbe davvero darci una risposta molto approfondita, perché spesso non si sono nemmeno soffermati a pensarci.
    Prima che qualcuno obbietti: oh, sì, per carità, ci sono anche autori che vengono colti da raptus di follia omicida/suicida e scrivono un finale a casaccio. In quel caso si vede benissimo che il finale è stonato ed è stato aggiunto/modificato dopo. Ovviamente, qui il problema non è tanto che ci sia un lieto fine quanto che l’autore è bipolare.
    Se, invece, la vicenda è davvero troppo semplice e il Protagonista ha raggiunto il lieto fine così, come se niente fosse, senza alcun problema più o meno grave, in un lento susseguirsi di pagine vuote, beh, dovrà ripetermi: il problema non è il lieto fine in sé, ma il fatto che l’autore ha scritto tutta la storia col culo.
    Con questo, abbiamo dimostrato che l’equazione Lieto Fine = Facile/Noia è molto, molto fallace.
  • Passioni malsane
    … e poi ci sono quelli che preferiscono un bad end, per dirla in termini di videogioco (di cui parleremo fra poco) perché hanno questa passione malsana per le storie con stragi e morti.
    “Ferma à!” dirà qualcuno, “Non avevi detto che rispettavi i gusti?”
    Sì, sì. Indubbiamente. Anche in questo caso, accetto ma non condivido. Se quello che preferite nei libri di Martin è fare il toto-Chi morirà ora, lo rispetto. A me non piace molto seguire storie con la media di due morti a capitolo, ma appunto, sono gusti.
    Non sono molto d’accordo, invece, con chi pensa che la morte di qualche personaggio (in particolar modo del Protagonista) debba esserci per contratto perché rende tutta la storia più “elevata”.
    What about nope. Ora potrei stare a dilungarmi sul fatto che solo pensare di uccidere un personaggio per dare più spessore mi causi mal di stomaco, o che uccidere gente a caso è tipo il plot device più usato dagli scritturocoli della domenica per triggerare una qualsiasi reazione emotiva del lettore – di solito in un momento dove altrimenti la storia stagna (ovvero, piuttosto che metterci una trama preferiscono accoppare qualcuno). Ma no, cercherò di spiegare a livello tecnico perché la cosa è una boiata.
    Qualsiasi cosa ci sia in una storia deve avere uno scopo. Qualsiasi scena, battuta o azione ha un fine. Dato che, appunto, la storia non è nella realtà, viene epurata da tutte le scenette di scarso rilievo come le tappe al bagno o l’andare a fare la spesa, o l’attesa nel girone infernale delle poste quando si deve pagare una bolletta. Di queste cose non frega un tubo a nessuno, e dunque in una storia non ci sono. Le cose che CI sono, invece, servono. Possono servire semplicemente per portare avanti la trama, per caratterizzare un personaggio, per fornire contesto o background. Ma uno scopo ce lo devono avere. Quindi, semplicemente, anche la morte di un personaggio – soprattutto la morte di un personaggio! – deve essere una cosa perfettamente calcolata ai fini di trama. Ogni personaggio è una variabile che può spingere la storia in una direzione o nell’altra: se si perde una pedina importante va tutto a buone donne, come se fosse una gran partita a scacchi.
    Quindi no, non si può uccidere qualcuno solo perché così sembra più figo o più profondo o perché ci si annoiava. Non ha senso.
    Personalmente, ho un mio metro di misura infallibile per giudicare se la morte di un personaggio era necessaria o meno. Prendete una storia e qualcuno che è morto. Provate a pensare a com’è andata la storia dopo la sua morte. Se fosse sopravvissuto, sarebbe cambiata? Avrebbe dovuto necessariamente prendere un’altra piega, insomma, ci doveva essere per quel che sarebbe successo dopo? Allora sì, la morte serviva. Oppure magari sarebbe cambiato poco e niente, giusto le cose che la presenza avrebbe necessariamente cambiato, MA la trama principale sarebbe rimasta invariata? Allora la morte di quel personaggio era superflua. Questo, certo, supponendo che sia una storia scritta bene da una persona competente. In una storia scritta male, ovviamente, se non cambia nulla può anche solo voler dire che quel personaggio era inutile – ma appunto, non ci devono essere cose inutili fin dall’inizio.
    Anche la morte di un personaggio fa parte della trama – è un bivio, non un extra per piagnucolare. Dunque nient’affatto una cosa da trattare con leggerezza.
    Possiamo quindi stabilire che la mancanza di morti, se la storia/trama non lo richiedeva, non sarà mai un difetto. Che sia alla fine, o durante.

Guida agli Ending

Ora che abbiamo spiegato perché le due obiezioni principali non stanno in piedi, voglio fare qualche esempio all’attivo.
I videogiochi multi-ending sono il più chiaro esempio di come il finale vada, appunto, guadagnato.
Facciamo un riassunto delle puntate precedenti per chi non è pratico. Diciamo che, in certi videogiochi, la storia può cambiare a seconda delle scelte che si fanno… e di conseguenza, portare a diversi finali. Li chiamerò in inglese sia per abitudine sia perché è più stylish. Di solito abbiamo almeno tre varianti: True End, Normal End, Bad End.
Il True End, come dice il nome, è il vero finale, ovvero quello dove tutti i nodi di trama vengono al pettine, e la vicenda arriva alla sua effettiva conclusione. Può capitare, di rado, che il True End non sia positivo… ma davvero, sono casi piuttosto isolati.
Riflettiamoci un attimo: perché? Perché il True End, di solito, è il più difficile da ottenere, alcune volte è impossibile prenderlo alla primissima giocata, dato che certe meccaniche si capiscono solo dopo. Oltre che il gioco in sé e per sé, nel True End ci sono un sacco di altre sottigliezze e accorgimenti: a volte bisogna trovare determinati oggetti, oppure assicurarsi di aver stretto abbastanza il legame con certi personaggi. Potrebbe implicare il raggiungere posti segreti, ben nascosti, e vedere scene in più. Il gioco può tenere in conto moltissime variabili, di cui alcune piuttosto subdole – faccio un esempio: in Silent Hill 2, il gioco tiene in considerazione anche se il protagonista veniva curato subito, quando si faceva male, oppure lo si lasciava sempre con la vita a metà. Ecco. Per cui, capite che dopo essersi fatti tutta questa immensa fatica uno vuole solo vedere il personaggio ottenere ciò che desidera e continuare a farsi gli affaracci suoi. Se ti sei ammazzato per tutto il gioco e finisce che, in fin dei conti, hai fallito, ti sale un po’ la depressione/furia repressa.
Di solito il Normal End è il più facile da prendere; si pone come finale non necessariamente negativo, ma che avrebbe potuto essere migliore. Spesso lascia aperte questioni di trama, o solleva nuovi quesiti, come per sollecitare a scavare un po’ più a fondo.
Alcune volte è quasi identico al True End, e gli manca quell’unico dettaglio che rende il True perfetto. In questi casi, il Normal diventa un finale molto troll.
Invece i Bad End, di norma, sono fatti per essere i più difficili da prendere: certo, ci sono alcuni autori che si divertono a fare dei Bad End… difficili da individuare, cosicché uno li prenda per sbaglio (e fa parte del gioco anche cercare di evitarli), ma solitamente sono più fatti per “punire” una mancanza di attenzione da parte del giocatore, una certa trascuratezza nella giocata.
Un esempio di questo è il videogioco indie Ib: i due protagonisti finiscono intrappolati in una galleria d’arte indemoniata e devono uscirne. A seconda di come si agisce nel gioco, uno dei protagonisti può morire – cosa che porta solo a Bad End. Le azioni da cui dipende questo sono tutte cose come distruggere pezzi della galleria anche quando non è necessario, avere un atteggiamento aggressivo, sbagliare certi puzzle cruciali. Perché quello che fa l’antagonista nel bad side ending lo avrebbe potuto benissimo fare anche nell’altra strada, ma non lo fa solo perché non lo si è fatto incazzare.
E personalmente, anche se in un libro o in un film non devo agire in prima persona per sostenere i personaggi, arrivare alla fine e trovare un bad end mi fa alterare esattamente come quando ho fatto cinque ore di gioco ininterrotte e mi ritrovo con un finale odioso fra le mani.
… non che mi capiti spesso, sono piuttosto brava. Ma se capitasse, sarei molto urtata.

E vissero per sempre felici e contenti

E poi, diciamocelo: il lieto fine è un concetto che cambia per tutti.
In generale lieto fine viene considerato una “fine positiva” della vicenda, ma non è detto.
A livello di trama, visto quello che sono le storie, possiamo dire che il lieto fine coincide con quando il Protagonista ha raggiunto il Suo Grande Obiettivo e sconfitto qualunque cosa gli si opponesse.
Capite bene che anche qui si presentano un sacco di variabili. Non è detto che quello che il Protagonista bramava tanto, una volta ottenuto, fosse proprio come se lo aspettava. Oppure potrebbe morire nel tentativo o dover sacrificare qualcosa di assolutamente prezioso per lui. Quindi da una parte avrebbe vinto, ma dall’altra avrebbe perso. E ancora. questo Suo Grande Obiettivo potrebbe venir raggiunto solo in parte, potrebbe dover cedere a dei compromessi…
Perciò, per sua stessa natura, il lieto fine è alquanto mutevole e non è detto sia davvero positivo. Potrebbe esserlo solo in parte, oppure risultare agrodolce.
Altro esempio pratico: nelle favole del signor Hans Christian Andersen, si finisce spesso e volentieri che il Protagonista muore e va in Paradiso per ricongiungersi con dei cari defunti (ex. La piccola fiammiferaia, Le scarpette rosse) oppure può capitare che i due amanti muoiano insieme (Vedasi Il soldatino di stagno). O altre varianti fantasiose ancora (Come ne La sirenetta, dove lei è morta e non ha potuto unirsi al principe, ma ha ottenuto un’anima immortale, dato che le sirene non la avevano).
Nelle idee dell’autore, che per altro era molto religioso, sono indubbiamente dei lieto fine. Nelle idee del lettore, spesso si rimane tipo “… cazzo ma la sfiga-“. Insomma, non è neanche detto che l’idea di lieto fine di autore, personaggi e lettore coincida.
(Da qui ho deciso di coniare il mio “è un lieto fine alla Andersen”).
Ma il lieto fine più classico, ovvero quello delle favole, quel e vissero tutti felici e contenti, aveva un certo significato piuttosto specifico e tutt’altro che banale.

“Lei crede che un racconto debba avere un principio e una fine?
Anticamente, il racconto aveva solo due modi per finire:
passate tutte le prove, l’eroe e l’eroina
si sposavano oppure morivano.
Il senso ultimo a cui ci rimandano tutti i racconti ha due facce:
la continuità della vita, l’inevitabilità della morte.”
[Italo Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore]

 

La continuità della vita.
Minchia, ci voleva Calvino per spiegarlo.
(O l’inevitabilità della morte, qualcora siate fra quelli che preferiscono gli ending darkettoni ma siete brave persone e sapete che son gusti.)
Perciò.
Quando una storia è scritta bene, quando i personaggi rimangono fedeli a loro stessi fino all’ultimo rigo, quando le vicende culminano nell’unico finale che ci sarebbe potuto essere, è giusto così.
Esistono mille tipi di finali, e mille tipi di finali lieti o presunti tali. Il semplice fatto che siano positivi NON include da nessuna parte una clausola in piccolo che li voglia anche noiosi o surreali.
Il lieto fine ha un senso più ampio: è la vita che continua.
E, da parte mia, sono ben lieta di trovare storie dove torni questo senso ultimo ancora e ancora.
Detto ciò, vi saluto.
Bye!

 

[Texture by kotokoto]